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.... GIORNATA  della  MEMORIA    27  Gennaio  2016

 

 

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STORIA DEI REINACH

Una sera di alcuni anni fa, durante una cena famigliare in casa del noto storico dell’arte Philippe Daverio, da un misterioso plico recapitatogli dall’amico Jean Blanchaert spuntarono decine di fogli provenienti dall’Archivio di stato milanese, che riguardavano la dolorosa storia di una famiglia ebrea, quella dei Reinach, e all’improvviso, al rapido scorrere di quelle carte di mano in mano, cadde fra i commensali un velo di profonda tristezza.  Allo stesso modo ho dovuto reagire io, entrando in possesso di analoghe carte, rintracciate all’archivio comasco e riguardanti la medesima vicenda: copie di atti  emessi dai diversi uffici di Como (prefettura, questura, intendenza di finanza,...), complementari a quelli degli uffici milanesi.  Ho potuto farmi così  un’idea abbastanza precisa di quella che Daverio, nella bellissima  pagina da lui scritta per il settimanaleDiario, chiama “la tranquilla crudeltà della burocrazia fascista”. Nulla di strano in verità, se diligenti burocrati repubblichini svolgevano con apprezzabile impegno il loro lavoro, usando ancora quelle macchine da scrivere di una volta, ora finite in soffitta, che non allineavano sempre le lettere, qualcuna ne saltavano, e potevano correggere un errore solo ripassandoci sopra. Ed errori, lo devo ammettere, in queste carte ne trovo parecchi, di forma ma non solo.  Vale però la pena ugualmente, per raccontare questa storia – come aveva fatto Daverio – partire da quegli atti, per  la loro inconfutabile concretezza materiale, capace di resistere ad ogni velleità negazionista, una concretezza pari a quella della cappellafuneraria dei Reinach che ho scoperto nel cimitero di Lanzo Intelvi,  impassibile contro il cielo azzurro di luglio, affiancata dalle cappelle delle altre famiglie ebraiche che passarono di qui negli ultimi mesi del ’43, fuggendo dalla furia nazista che all’indomani dell’armistizio aveva scatenato anche nel Nord Italia la caccia all’ebreo.
Ma la scoperta dei Reinach italiani è venuta in un secondo momento, successivamente alla riscoperta del romanzo “Le variazioni Reinach” (2005), opera molto coinvolgente  dello scrittore romano Filippo Tuena, che rappresenta un omaggio devoto, quasi l’assolvimento di un dovere di coscienza, reso ad una facoltosa famiglia di ebrei francesi sterminata ad Auschwitz, e ispirato  dalla visita occasionale ad un museo parigino.  Quale l’anello di congiunzione fra le due storie? Evidentemente il nome, associato al ricordo di una splendida villa nascosta in una stradina di Lanzo, e poi moltissimi caratteri comuni: l’appartenenza alla razza ebraica, la ricchezza economica delle due famiglie, ma soprattutto infine il comune destino della deportazione e della morte nel lager. Anche a Philippe Daverio non erano sfuggite queste convergenze intriganti, tanto da dedicare all’argomento ben due puntate del fortunato programma Passepartout, andate in onda nella primavera del 2010, nelle quali le storie parallele delle due famiglie Reinach, quella italiana e  quella francese, s’intrecciano fra loro per dare vita a unoriginalissimo percorso di approfondimento  del tema dell’Olocausto, prendendo le mosse, come si diceva sopra, proprio dall’archivio milanese.A questo punto tuttavia, rinviando da un lato alla lettura dell’appassionante  romanzo di Tuena quanti volessero  conoscere meglio la saga dei Reinach francesi - che attraverso il matrimonio del giovane Léon con Béatrice, si unirono ad un’altra celebre famiglia israelita, quella dei de Camondo – penso da parte mia di dover focalizzare piuttosto l’attenzionesulla vicenda storica dei Reinachdi casa nostra, originari  della Renaniatedesca ma che, dopo aver vissuto per qualche tempo a Torino, si stabilirono poi nel capoluogo lombardo.

Era dall’autunno del ’38 che per gli ebrei l’aria si era fatta pesante anche nel nostro Paese, e molti, più lungimiranti ed accorti, avevano lasciato la patria, il lavoro, gli affetti più cari, con il vago presentimento della tragedia incombente sull’Europa. Ma il vecchio Ernesto Reinach, ricco imprenditore milanese che aveva creato la sua fortuna con la produzione di lubrificanti industriali (la famosa ditta Oleoblitzfondata in zona Niguarda), e che nei primi anni del Novecento aveva acquistato terreni in quel di Lanzo, costruendovi un’ incantevole villa in stile veneziano (un autentico gioiello, molto raro da queste parti, opera di un oscuro architetto vicentino), non voleva credere a quanto si mormorava in giro, e testardamente rimaneva attaccato alle sue proprietà. A quanti gli suggerivano che era giunto il momento di lasciare l’Italia, lui obiettava con aria scettica: “Cosa volete che possano fare i tedeschi a un vecchio come me?”. Di anni ne aveva ottantanove, e il buon senso avrebbe portato a dargli ragione. Ernesto aveva avuto sei figli dalla moglie Irma Pavia, quattro femmine e due maschi: la famiglia dei Reinach si era molto allargata, e comprendeva ben quindici nipoti, tutti più o meno legati alla grande villa intelvese, dove il clima mitigava d’estate l’arsura della metropoli senza soffrire l’umidità del lago. Ernesto doveva essere persona intelligente, generosa, ed anche uomo di mondo, amava il teatro e le belle donne, era rimasto vedovo da tre anni. In quelle settimane terribili successive all’8 settembre, la minaccia del pericolo nazista, sebbene ancora indistinta,  diffonde il panico fra la popolazione di origine ebraica, e nella disperata ricerca di una via di scampo la frontiera italo-svizzera viene letteralmente presa d’assalto: è  difficile oggi immaginare le condizioni in cui si svolse questo spaventoso esodo, ma per farlo sono di aiuto le pagine del bel volume di Renata Broggini dal titolo “La frontiera della speranza” (1998),  che raccoglie decine e decine di dolorose, talvolta struggenti, testimonianze sul tema. I figli di Ernesto, con le rispettive famiglie, già avevano varcato il confine, qualcuno anche l’oceano: Luisa, infatti, aveva raggiunto il marito Cesare Aboaf in Brasile, dove egli  aveva già avviato una sua attività.  Erano i giorni in cui tutta la linea del confine ticinese subiva insostenibili pressioni, costringendo le autorità elvetiche ad affrontare un’ emergenza senza precedenti. Si calcola che da ottobre a dicembre del ’43 passarono la frontiera circa millecinquecento profughi al mese, e che il flusso proseguì l’anno successivo con una media mensile di cinquecento rifugiati, fino all’ultima ondata dell’ ottobre del ‘44, provocata dalla riconquista nazifascista della Valdossola, che spinse oltre confine ben 3.300 fra partigiani e civili. L’autunno del ’43 fu tuttavia il periodo più tragico per gli ebrei italiani. Dopo il primo cedimento alla inarrestabile fiumana di profughi, in pochi giorni il governo elvetico corse ai ripari e avviò una politica di respingimenti assai determinata, soprattutto nei confronti degli ebrei, mentre maggiore indulgenza fu adottata verso i rifugiati politici e  gli ex-prigionieri di guerra alleati, fuggiti dai campi di internamento italiani. L’ordine giunto da Berna stabilìche non potevano essere accolti gli uomini di età superiore ai sedici anni: questa discriminazione comportò, come è facile immaginare, gravissime, disumane selezioni al passaggio della frontiera, e scene strazianti all’interno delle famiglie in fuga. La ferrea disciplina applicata ai cittadini di razza ebraica si allentò soltanto ai primi di dicembre, allorché il governo  repubblichino, sicuramente poco favorevole ad un’ autonoma gestione tedesca del problema ebraico in territorio italiano, assunse in proprio una posizione con la sciagurata ordinanza di polizia n. 5, che intimava l’arresto immediato dei cittadini di razza ebraica, il loro internamento in campi provinciali di prigionia, nonché la confisca dei loro beni. Di fronte a tali misure, che ponevano a rischio la libertà e l’incolumità stessa degli ebrei, divenne più facile attraversare la frontiera, nondimeno non si arrivò mai a regolamentare in maniera univoca la questione, e la conquista della salvezza continuò a dipendere in buona parte da fattori casuali (insistenza dei profughi, raccomandazione di parenti già emigrati in terra elvetica, arrendevolezza della milizia confinaria, oppure semplice fortuna). Ogni famiglia faceva storia a sé, e infinite sono oggi  le storie che i discendenti di quella umanità sofferente e smarrita hanno da raccontare. Infinite storie e  inenarrabili odissee, che ci parlano di rocambolesche fughe clandestine, vissute nell’angoscia e nel terrore, nottetempo, con estenuanti marce forzate attraverso boschi e fiumi, con vecchi e bambini al séguito, alla mercé di ignoti “passatori”, in gran parte contrabbandieri, mossi quasi sempre da interessi venali e capaci, in qualche caso, di approfittarsi dei loro ostaggi. Diversa la sorte degli ex-prigionieri di guerra, per i quali il  CLN  gestiva una rete di espatrio organizzato: si pensi ad esempio, per la nostra zona, all’opera di collaborazione svolta dal parroco di S. Maria Rezzonico e ricordata nell’intervista concessa a Rosaria Marchesi (in “C’era la guerra”,1992).

Fra le infinite storie di ebrei fuggiaschi, anche quella dei Reinach. Quando Marcella, detta Nini,  una  delle figlie del vecchio Ernesto, sposata a Marcello Segre, udì alla radio che i tedeschi avevano occupato il Nord Italia, si  decise a partire coi famigliari (così ricorda la figlia LucianaFarchy) attraverso il valico di Lanzo, divenuto in quei giorni uno dei punti nevralgici di affluenza per la sua particolare posizione geografica, e il 13 settembre tutti loro scesero al lago di Lugano. Consegnati nelle mani della polizia di confine, poterono raggiungere la salvezza grazie all’intervento di un socio della ditta paterna che amministrava una filiale a Mendrisio, e che, contattato telefonicamente, venne a prelevarli alla frontiera. La stessa cosa avvenne anche per Carla,  madre di Silvia, allora ventenne, oggi elegante ed energica  signora novantenne, vedova Blanchaert, che ho incontrato con il figlio Jean all’interno dello splendido parco della villa di Lanzo già appartenuta ai nonni, e che ricorda lucidamente quegli eventi drammatici a cui prese parte. La mamma, già fragile e insicura, e la zia Nini  dovettero ricorrere per la fuga all’aiuto di Giuseppe Grandi, il fedele custode della villa, che si occupava della cura del giardino e della scuderia, ed era sempre pronto a spalancare con un sorriso il cancello d’ingresso ogni volta che i padroni annunciavano il loro arrivo in valle. Esperto conoscitore della zona, nonché uomo di buoni sentimenti, si prestò molte volte, in maniera disinteressata,  a percorrere i ripidi sentieri della val Mara per condurre oltre la rete tanti fuggiaschi, e a maggior ragione soccorse i suoi padroni quando ce ne fu bisogno. A lui, che dopo tanti viaggi della speranza venne scoperto e arrestato, e deportato in Germania morì  a Buchenwald nel ‘45, il Giornale dedicò una memoria nel 2003, e alloYadVashem di Gerusalemme è in corso – con interessamento dello stesso Jean – la causa per la sua iscrizione  fra i giusti delle nazioni. Di questo eroe silenzioso ho trovato la firma in calce ai verbali d’inventario redatti da due scrupolosi funzionari di pubblica sicurezza, inviati a Lanzo Intelvi il 2 marzo del ’44 per consegnare al custode le chiavi della villa, nonché tutti i beni rinvenuti in due camere del secondo piano, cui furono apposti i sigilli, e raccolti in ventiquattro casse. Quella dei beni sequestrati ai cittadini di razza ebraica e confiscati dal governo repubblichino sarebbe una storia a parte, di cui le carte d’archivio riportano puntualmente i successivi passaggi: dalla Provincia locale all’Ente gestione e liquidazione (EGELI), da questo al Credito fondiario della CARIPLO delegato allo scopo. Voglio per ora limitarmi a sottolineare lo stato d’animo di bonario sconcerto con cui ho sfogliato le decine di veline fittamente riempite dagli estensori con l’elenco minuzioso di tutto quanto (stoviglie, biancheria, suppellettili e oggettistica la più svariata) accumulato in due stanze di una villa di vacanza durante un trentennio di vita famigliare! E tutto ciò ignorando quali sarebbero stati di lì a poco gli sviluppi della guerra, e che già dal precedente mese di gennaio il regio decreto n. 25, emanato dal  governo italiano, aveva disposto il reintegro dei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri di razza ebraica.Il primo decreto della trafila burocratica, emesso dal capo della provincia di Como, reca la data del 3 maggio: richiamate nel preambolo le norme di riferimento (anzitutto le leggi razziali del ’38, che al nascere della Repubblica di Salò nessuno aveva pensato di abolire), riporta l’elenco dei beni immobili in Lanzo Intelvi (fabbricati e terreni) appartenenti alla “ditta Reinach Marcella, Carla, Luisa, Antonietta di Ernesto, proprietari, e Reinach Ernesto usufruttuario in parte, tutti di razza ebraica” e ne dispone la confisca e il trasferimento all’ente liquidatore. Tale decreto si appoggiava, ovviamente, da un lato ad una rilevazione effettuata dalla Intendenza di finanza, e dall’altro ad una nota della Questura di Como, datata 15 marzo, e indirizzata all’Ufficio di stato civile di Milano, in  cui si richiedevano la razza di appartenenza e le complete generalità di Reinach Ernesto, di anni 90: nota quest’ultima che recava in calce, scritta a mano, la risposta, e cioè che la persona in oggetto era di razza ebraica. Tutto a conferma della “tranquilla crudeltà della burocrazia fascista”. E tutto appare ancora più assurdo se si pensa che la tragedia dei Reinach, ahimè,si era già consumata da tempo sulla via di Auschwitz.

“Qui aleggiano gli spiriti di EttaReinach, Ugo De Benedetti, Piero De Benedetti, scomparsi nei campi di sterminio nazisti…”: recita così l’epigrafe dentro la cappella di famiglia  di Lanzo, che sono tornato a visitare in compagnia di Jean. Delle quattro figlie di Ernesto solo Antonietta, di anni 39, sposata con l’avv. torinese Ugo De Benedetti, madre di due ragazzi, rimase indietro nella fuga verso la salvezza. Per lei,  il marito, il figlio Piero e l’anziano padre era pronto un piano che li avrebbe dovuti condurre alla frontiera a partire dalla villa di Torriggia, di proprietà di Ugo, a bordo della Isotta Fraschini del nonno: ma per un banale ritardo proprio a Torriggia furono arrestati da una pattuglia tedesca e tradotti alle carceri milanesi di San Vittore.  Jean mi assicura che ciò non fu dovutoal caso, bensì alla “soffiata” di qualche delatore, che il giorno seguente fece arrestare anche i cugini piemontesi De Benedetti, convenuti al pian d’Orano, poco sopra il paese di Lanzo, con la promessa di essere accompagnati al confine. Succedeva anche questo in quel non lontano passato. E se d’altronde si vanno a rileggere certi editoriali scritti dall’allora direttore de  La Provincia di Como, Giorgio Aiazzi, si può capire facilmente quanto radicato e diffuso fra la popolazione fosse l’odio razziale, e quanto al contrario ammirevoli e coraggiosi debbano apparire oggi gli esempi, pure numerosi, di aiuto disinteressato dato  alle famiglie dei profughi ebrei. Ma la gentile signora Silvia  ed i suoi figli hanno voluto dimenticare, perdonare, ed è un fatto veramente importante e significativo che essi seguitino a frequentare questi luoghi incantevoli, per godere della fresca brezza dei boschi e della solidale amicizia dei borghigiani: settant’anni trascorsi da allora possono essere pochi, per dimenticare le tragedie della guerra, ma anche sufficienti  per voler costruire un futuro di ritrovata pacificazione.
Secondo Liliana PicciottoFargion, autrice del noto Libro della memoria (2002), una prima retata di ebrei nelle case milanesi fu effettuata il 3 di novembre, e cinque giorni dopo ebbe luogo un altro rastrellamento a partire dalla sinagoga di via Guastalla. Sono le settimane terrificanti della violenza antisemita scatenata dalle truppe naziste (due divisioni, in particolare, spostate dal fronte russo e già avvezze a partecipare agli eccidi di massa), che aveva portato già ai massacri di Meina e degli ebrei francesi sconfinati nel Cuneese, e che vide numerosi rastrellamenti nelle più grandi città del Nord Italia. Intensa fu anche l’attività di setacciamento della linea di frontiera italo-svizzera. Al carcere milanese, che prima dell’apertura di Fossoli (5 dicembre) svolse le funzioni di campo di raccolta principale per le regioni del nord, finirono all’incirca 400 ebrei, rinchiusi nel quarto raggio, agli ordini del comandante Theodor Saewecke e sotto la responsabilità diretta di Otto Koch. A San Vittore, come all’hotel Regina o a Villa Luzzatto, si tenevano gli interrogatori, si praticavano la violenza e la tortura, si redigevano le liste per le deportazioni e si organizzavano i trasporti verso i lager. Nel quinto convoglio partito dalla stazione di Milano il 6 dicembre del ’43 e diretto ad Auschwitz con un carico di oltre 250 ebrei, vi erano 20 bambini (di cui uno di pochi mesi) e 52 anziani, il più vecchio era nonno Ernesto. Il poveraccio, precipitato dagli agi di una vita benestante agli orrori della prigionia e della deportazione, secondo alcune testimonianze di sopravvissuti non giunse neppure a destinazione e si spense durante il viaggio nei pressi di Bolzano. Di Etta e il piccolo Piero si sa che perirono nelle camere a gas subito dopo l’arrivo al lager. Ugo fu invece avviato ai lavori forzati, ma non fece mai più ritorno a casa. Pare che, fra le ultime parole di addio da loro  pronunciate, vi fossero le raccomandazioni per la sorte del secondogenito di Etta, Giancarlo, che riposa al cimitero ebraico di Milano, dopo la morte avvenuta nel 1990, come ricorda una lapide nella cappella di Lanzo. La sua storia l’ho fortunosamente rintracciata nel citato volume della Broggini, dove si parla testualmente di “un caso emblematico di persone tradite da italiani, una famiglia arrestata e deportata, un ragazzo ricercato nascosto da religiosi, fatto uscire da parenti con l’aiuto di una guardia di finanza in divisa che lo trasporta in bicicletta fino a Chiasso, da dove gli fa superare la rete”. Tal quale risulta dai verbali d’interrogatorio della polizia elvetica che rintracciò e identificò il ragazzo, nonché dalla testimonianza diretta che me ne riporta Jean. Giancarlo, infatti, era affetto da qualche turba del comportamentoe viveva in un istituto dove aveva già dimostrato di aver fatto dei progressi: fu questa la ragione per cui rimase escluso dalla repentina partenza dei famigliari, ma che non bastò a metterlo al riparo dalla violenza tedesca. Dapprima lo zio Silvio Rota, marito di Carla, rimasto in Italia in quanto di sangue non ebreo, lo tenne nascosto in una sua casa di Caslino d’Erba, poi lo condusse in un collegio di religiosi sul lago Maggiore, infine, sapendo che anche là erano andati a cercarlo – con quale inesauribile tenacia i nazisti sapevano perseguitare le loro vittime! – organizzò accuratamente la sua fuga all’estero. Giancarlo raggiunse finalmente la salvezza agognata, ma non poté mai più superare il terribile trauma subìto: al termine della guerra, rientrato in Italia, trascorse alcuni anni sereni, facendosi una sua famiglia, ma poi riprese ad essere tormentato dai fantasmi del passato.

   Eravamo partiti, per scrivere questa storia, dalle carte d’archivio riguardanti i Reinach, e a quelle carte ora ritorniamo per giungere alle conclusioni. Anche Daverio chiudeva il suo articolo con la lettera del prefetto di Milano del 6 giugno ’45 che reintegrava il nonno Ernesto nei suoi diritti e beni, quando egli era già deceduto da oltre un anno; analogo decreto emana il suo collega di Como, e nello stesso giorno risulta emessa dalla questura un’autorizzazione a favore del sig. Marcello Segre a ritirare tutti i beni confiscati ai Reinach nella nostra provincia. Così il suddetto sottoscrive di suo pugno il verbale di riconsegna degli stessi beni da parte del Credito fondiario della CARIPLO, ma l’indomani – scoperto evidentemente l’ammanco di due materassi, quattro piatti e quattro candelabri d’argento, asportati dalla villa di Lanzo e finiti nientemeno che nell’appartamento cittadino del questore – scrive a quest’ultimo una letterina coi fiocchi, chiedendo la restituzione del maltolto. Il Segre fa riferimento a un decreto legislativo dell’ottobre ’44, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale,  che annullava l’efficacia giuridica di ogni atto di confisca emesso dalla Repubblica sociale italiana, decreto reso immediatamente esecutivo, nell’aprile del ’45,nelle regioni progressivamente liberate dagli Alleati. Ma il questore non ne volle sapere, e con una nota abbastanza piccata e saccente, gli rispose che non era possibile soddisfare la richiesta in quanto si erano già verificati casi di beni confiscati ad alcuni e reclamati da altri, e che nella confusione generale causata da inventari sovente generici o imprecisi, “a proposito di piatti d’argento si è persino cercato di ritirarne di quelli di mia assoluta proprietà, da me portati in occasione dell’assunzione di questo ingrato ufficio” (sic!). Come dire: servire la patria e assolvere i propri doveri, siamo d’accordo, ma rimetterci del proprio, in tempi tanto infausti e sventurati, questo proprio non mi sta bene!

Carlo Galante
Como